Le strutture urbane dipinte da Estes propongono l’archeologia di un mondo spopolato forse per una fredda apocalisse; lo stesso vale per gli scenari di montagne e di oceani che appaiono sopravvissuti a una glaciazione.
(Raffaele Crovi, La scrittura delle città, 2007)
Se la fotografia è stata inizialmente un mezzo di ricognizione del reale e di comprensione del mondo moderno, la pittura è per Estes l’unico strumento per affidare all’eterno la bellezza di un soggetto.
Quando trova un motivo di suo interesse scatta una serie di fotografie a partire dalle quali costruisce ciò che vuole rappresentare. Non si tratta però di assoluta fedeltà al riconoscibile. Estes non riproduce la fotografia, interviene facendo parlare la pittura: riorganizza la prospettiva, dilata o restringe gli spazi, modifica la tavolozza dei colori, alterna le intensità della luce, ponendosi così nel solco di quella tradizione
europea che si riconosce nei valori, anche etici, del dipingere. Usa tela, pennelli, olio e acrilico per la necessità di trascendere il soggetto, di andare al di là del visuale. Le sue opere appaiono come “fotografie” ingannevoli; vera pittura che inganna l’occhio.
Fotorealista, iperrealista è lo sguardo di Estes in un momento in cui, nella seconda metà del Novecento, l’espressionismo astratto prima e la pop art poi avevano espresso la modernità attraverso forme astratte, geometriche, informali, minimali e concettuali.
Il tema principale dei sui dipinti è l’ambiente che l’uomo ha prodotto, quello in cui lui stesso è nato, si è formato, l’ambiente urbano in cui ancora vive. Ama le strade e i dettagli specifici della vita nelle grandi città, vede la grazia nei grattacieli, nei marciapiedi, nei ponti e negli squarci di acqua increspata. Si appassiona al paesaggio intricato di New York in cui domina l’architettura mentre le persone se ne stanno dentro alle cabine telefoniche come in Telephone Booths (1967), dietro alle vetrine come in Double Self-Portrait, (1976), o racchiuse all’interno di ristoranti o di autobus come in Brodway Bus at Liberty Street (1996). Nelle sue metropoli ritroviamo affollati dettagli di una modernità dominante e di una sensibilità rivolta più a ciò che accade nello sfondo che non ai passanti. Restiamo catturati sia dai frenetici richiami visivi delle insegne e delle superfici riflettenti con cui sono costruiti ad esempio i grattacieli, sia dalla silenziosa “presenza a distanza” delle persone. Nei rari casi in cui la città è abitata gli abitanti paiono accessori, hanno un ruolo di second’ordine fino a scomparire completamente come in Escalator del 1970.
Se inserisci una figura, questo modifica la tua reazione al dipinto e distrugge la percezione che ne hai, perché quando aggiungi figure, le persone cominciano a mettersi in relazione con le figure, e si tratta di un rapporto emotivo. Il dipinto diventa troppo conforme alla realtà, mentre senza la figura è esclusivamente un’esperienza visuale. (Estes)
Lo sguardo disciplinato di Estes è guidato dalla volontà di cogliere ogni elemento essenziale di ciò che vede e dipinge. E allora le figure sono quelle che l’artista rileva nell’atto formale di camminare o di attraversare la strada, non c’è relazione tra loro, non sono coinvolte emotivamente. L’immagine non deve essere perturbata dalla presenza umana, non è la rappresentazione di una microstoria. Prende le distanze dalla narrazione, ma popola le scene di tracce e di indizi (autobus che transitano, porte che si aprono) lasciati dal passaggio di abitanti invisibili. Estes registra quella silenziosa distanza sotto traccia che si percepisce diffusamente in una città stupenda, intricata, crudele e incurante come New York.
Davanti ai suoi scorci metropolitani ci troviamo faccia a faccia con il nostro ambiente, ci sentiamo sbalzare da un punto all’altro di una scena prosciugata dal calore umano in cui resta la sensualità della forma, futura essenza dell’uomo moderno.
Richard Estes è considerato uno dei fondatori dell’iperrealismo e uno dei protagonisti della pittura contemporanea americana. Divide la sua attività di pittore tra New York e le coste del Maine. La mostra antologica tenutasi a Palazzo Magnani nel 2007 è stata la sua prima mostra in Europa.