Pierfrancesco Celada. Untitled #13, Nagoya, 2009
Pierfrancesco Celada. Untitled #13, Nagoya, 2009

Social distancing. Ovvero «distanziamento sociale», la formula linguistica mutuata dall’inglese, lingua dell’Organizzazione mondiale della sanità, per designare la “distanza di sicurezza” da mantenere rispetto agli altri al fine di non venire contagiati e di non agevolare la trasmissione del maledetto Covid-19. Ci piace? Anche no, come direbbe qualche televisivo e personaggio del mondo dello spettacolo. E non piace, per esempio, a un protagonista della vita pubblica come Antonio Bassolino che, in un’intervista a Il Venerdì di Repubblica (31 luglio 2020), ha affermato: «Il virus non è scomparso e l’attenzione non deve calare. Ha ancora la sua importanza tenere una distanza fisica di sicurezza. Ma è fisica. Non sociale. Anzi, noi abbiamo bisogno del rapporto sociale, del rapporto con l’altro, amico e avversario, un bisogno di mescolanza, di dialogo, di confronto. Forse mai come in questo momento al primo punto dell’agenda politica vedo una questione di riduzione della distanza sociale».

Certo il social distancing lo dobbiamo mantenere e perseguire fino a che la scienza medica, l’Istituto superiore di sanità e l’Oms lo stabiliscono e ci dicono di farlo. E, in materia, dobbiamo attenerci in maniera piuttosto scrupolosa a questa indicazione. Ma che ci piaccia anche farlo, giustappunto, manco per niente. Naturalmente, si tratta di un’opinione assolutamente personale e di un assai modesto avviso individuale, che scaturisce però dall’abitudine a osservare – anche per ragioni di studio – la permanenza dei comportamenti indotti, specie se stabiliti dalle autorità. Modi di comportarsi che si stratificano molto più rapidamente (basti pensare alla «spirale del silenzio» elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann) di quanto si possa immaginare – e, peraltro, si tratta di nuove consuetudini che vanno in direzione antitetica a quell’«immunità di gregge» che la stessa epidemiologia ha considerato e descritto finora quale passaggio fondamentale per superare le epidemie e archiviare i virus.

A ben pensarci, «distanziamento sociale» ha qualcosa di molto evocativo, ancorché per nulla suggestivo. Perché le parole – come continuava a ripetere Nanni Moretti nel film Palombella rossa – sono importanti. Importantissime. E, quindi, meglio sarebbe fare ricorso a un’espressione come «distanziamento fisico», decisamente più neutrale e oggettiva, e che suona come una (inevitabile) constatazione.  Mentre il suono del distanziamento sociale suggerisce una certa quale inclinazione prescrittiva e normativa. Un po’ da stato etico, ancor più che igienista. E, in un momento di crisi sociale ed economica molto grave quale l’attuale, non se ne sentirebbe proprio il bisogno…


In testata: Pierfrancesco Celada, Ngoya (Japan)